che offra un “fondamento, formale e contenutistico” al potere sindacale di ordinanza, si verifica una
cesura nella “linea di continuità” espressiva del sistema di checks and balances che anima e sorregge
l’impianto Costituzionale Italiano, rappresentativo dei principi illuministici e liberali della divisione dei
poteri risalenti al pensiero di Montesquieu e degli altri teorici della democrazia moderna.
Rileva la Consulta come “l’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non
consente […] che l'imparzialità dell'agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento
effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge”, con derivante violazione della disciplina stabilita
dall’art. 97 Cost.
Da ultimo, la previsione legislativa di cui all’art. 54 co. 4 del d.lgs. 267 2000 che a ha generato il
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provvedimento contestato dinanzi al Giudice di Pace contrasta, pure, con l’art. 3 della Carta
Costituzionale della Repubblica, poiché “l'assenza di una valida base legislativa, riscontrabile nel potere
conferito ai Sindaci dalla norma censurata, così come incide negativamente sulla garanzia di imparzialità
della Pubblica Amministrazione, a fortiori lede il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge,
giacché gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle
numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei Sindaci”.
Un simile risultato – ammoniva la Corte Costituzionale – non potrebbe essere ritenuto come
una manifestazione “di adattamenti o modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete
situazioni locali, ma di vere e proprie disparità di trattamento tra cittadini, incidenti sulla loro sfera
generale di libertà, che possono consistere in fattispecie nuove ed inedite, liberamente configurabili dai
Sindaci, senza base legislativa”.
Mancando un riferimento normativo comune, i Primi Cittadini, con le proprie diverse
ordinanze, potrebbero, “come la prassi sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato”, generare
“restrizioni diverse e variegate, frutto di valutazioni molteplici”, le quali, proprio per il fatto di patire il
difetto di non derivare da “una matrice legislativa unitaria”, non riescono ad essere assoggettate ad un
giudizio sul rispetto del principio di eguaglianza, proprio perché tale carenza fa sì che non si possa
“verificare se le diversità di trattamento giuridico siano giustificate dalla eterogeneità delle situazioni
locali”.
Insomma, il messaggio è chiaro: il potere esecutivo, nelle sue articolazioni tutte, è tenuto a dare
contenuto alle scelte politiche della legislazione, la quale risale, direttamente od indirettamente, al
Parlamento, che è l’organo espressivo della sovranità popolare.
I Sindaci, dunque, facciano i Sindaci, ed, il Legislatore, lo faccia il Legislatore, così che non
esiste per il Primo Cittadino il potere di adottare provvedimenti a contenuto latamente legislativo.
Una volta fissato ed esplicitato tale principio, il Giudice di Pace di Verona correttamente rileva
come la norma posta dal Comune alla base della pretesa punitiva nei confronti del cittadino, tuttavia,
non fosse un’ordinanza del Sindaco, sulla cui illegittimità – evidentemente – non era in alcun modo
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consentito nutrire dubbi, bensì, per l’appunto, un Regolamento comunale.
Quid juris? La soluzione balza agli occhi e consiste nel ritenere il rilievo come del tutto
inconferente: l’attività riservata al Giurista è quella sopraffina dell’ermeneutica, così che occorre,
ovviamente, ricavare una regola dalle decisioni dei Giudici. La Corte Costituzionale ha chiaramente
posto le basi per rintuzzare un’eccezione come quella in esame, giacché non si riesce a comprendere
come potrebbe ritenersi legittimo per il Consiglio Comunale di ergersi a concorrente del Parlamento,
laddove chiaramente ciò è proibito al Sindaco.
Se la Consulta ha precisato come il potere esecutivo – al di fuori dei casi di urgenza – sia
vincolato a dare seguito ad un indirizzo fornito dal potere legislativo, è evidente come non possa certo
essere un gioco di prestigio a mettere in crisi o solo scalfire una regola così chiaramente espressa.
Il Giudice Veronese, invece, ovviamente, accoglie il ricorso dell’automobilista, ma lo fa, sia
fondandosi sul rilievo qui esposto – che, peraltro, onde fornire un quadro normativo il più possibile
articolato e complesso, integra altresì con un richiamo a quanto previsto dalla l. 689 1981 all’art. 1, co.
1, ove è stabilito che “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione” – sia evidenziando un aspetto
diverso ed ulteriore: nel proprio provvedimento, il Giudice di Pace, richiamando quanto chiarito dalla
Corte di Cassazione3, secondo cui “i regolamenti disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici
mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge”, ricorda come l’art. 4 delle Preleggi,
rubricato Limiti della disciplina regolamentare, al co. 1, stabilisca come i regolamenti non possano
“contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi”.
Oltre al principio per cui il sistema dei poteri dello Stato è tale per cui le scelte di campo
fondamentali competono a quelle sedi che sono in grado di risalire al depositario della sovranità che è il
Popolo, ne viene esplicitato un altro, che è quello per cui, laddove il legislatore si sia espresso, il potere
esecutivo non può, nell’esercizio della potestà normativa subprimaria, andare contro le scelte da quello
compiute, dovendo, al contrario, dare a quelle esecuzione e seguito.
3 Cass. SSUU,
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Dopo tale premessa, il Giudice Veronese, prima evidenzia come la norma contestata al
ricorrente “non regola né attua alcuna legge, bensì innova direttamente lo stesso ordinamento, in palese
e grave spregio al vincolo di subordinazione della potestà regolamentare rispetto a quella legislativa”,
poi, richiamando dei precedenti giurisprudenziali4, ricorda come, nel nostro Paese, la prostituzione in
sé, ovverosia il mercimonio delle prestazioni sessuali, sia attività lecita.
Vale la pena di chiarirlo: la l. 75 1958 la notissima legge Merlin, punisce con pena “l’esercizio
delle case prostituzione”, quindi espone a sanzione penale lo sfruttamento della prostituzione e
l’agevolazione di questa attività, ma non impedisce in sé e per sé l’attività del meretricio.
Chi si prostituisca viene sanzionato in via amministrativa, secondo le previsioni di cui all’art. 5,
laddove, “in luogo pubblico od aperto al pubblico”, inviti “al libertinaggio in modo scandaloso o
molesto”, oppure segua “per via le persone, invitandole con atti o parole al libertinaggio”.
Il Giudice Scaligero, dunque, non solo rileva come il Comune di Verona abbia agito al di fuori
del proprio raggio d’azione, sconfinando nell’ambito di pertinenza d’altro potere dello Stato, ma, pure,
censura l’introduzione d’una previsione che crea impedimento allo svolgimento ed alla fruizione di
un’attività riconosciuta dall’ordinamento giuridico come lecita.
In proposito, si legge nella sentenza qui in commento: “nessuna legge vieta – e per converso,
quindi, ammette – l’attività di meretricio; di contro, nessuna legge autorizza l’Autorità amministrativa a
poter disporre della sessualità dei singoli e nessuna legge conferisce ad essa il potere di regolamentare la
prostituzione”.
In sostanza, la sentenza in commento evidenzia come il Regolamento adottato dal Comune di
Verona fosse invalido per due ordini di ragioni: per un verso mancava la capacità per un organo diverso
dal Parlamento di innovare il sistema con l’introduzione d’una nuova disciplina, giacché solo all’Organo
depositario della sovranità popolare compete di poter fornire degli indirizzi di tipo politico nel senso
più alto del termine, per altro, quindi, – sotto un profilo eminentemente tecnico –un ulteriore vizio nel
provvedimento della città di Verona derivava dal fatto che ad una norma secondaria è proibito di
4 Inter alias, Cass. Civ., Sez. Trib.,
IDXc8910075f19d56b891a55e4dbd5bd042 9
contrastare con una di tipo primario.
Laddove la prostituzione è un’attività lecita, quindi, è preclusa la possibilità di porre delle regole
che, fondamentalmente, creino ostacolo od intralcio allo svolgimento di tale libertà, così conculcando
un diritto.
Stante, dunque, l’invalidità del Regolamento Comunale, il Giudice di Pace dispone di
disapplicarlo e di annullare il provvedimenti sanzionatorio irrogato in base ad esso, pervenendo anche –
prassi, invero, quasi sconosciuta ai Giudici di Pace del Bel Paese – alla condanna dell’Amministrazione
rea di aver adottato un atto invalido a rifondere al ricorrente le spese del giudizio.
Tutto ciò ci costringe a guardarci allo specchio ed a domandarci come mai, in un Paese che,
evidentemente, della prostituzione fruisce – altrimenti il fenomeno, per la basilare legge della domanda
e dell’offerta, non vi sarebbe – ma che vorrebbe – giustamente – che la stessa non avvenisse per strada,
si debba demandare il compito di risolvere la questione ai Sindaci, i quali si debbono impegnare in una
guerra, nella quale vengono inviati con armi spuntate.
La Corte Costituzionale, nel tirare le orecchie agli incolpevoli Primi Cittadini che, cercando di
rispondere alle richieste dei propri amministrati, tentano di sopperire alle mancanze d’un Legislatore
ignavo, ricordando loro che è il Parlamento a dover agire, pare aver parlato a suocera, affinché nuora
intenda.
Il fatto è che le Camere paiono non aver affatto recepito il messaggio ed ognuno di noi, quando
gli va dritta, è costretto a vedere nelle periferie cittadine avvilenti spettacoli, mentre, quando è
sfortunato, rischia pure di trovarsi sanzionato per aver approcciato una lucciola, quando, magari,
invece, s’era solo perso per strada e stava chiedendo come tornarsene a casa propria.
Non va sottovalutato, poi, un altro aspetto rilevante: quanti sono i cittadini che, raggiunti da un
verbale come quello che ha colpito il cittadino che ha adito il Giudice di Pace di Verona, hanno poi il
coraggio di impugnarlo?
Chi scrive, visto che è stato sincero in principio, non può che esserlo anche in chiusura,
pertanto confessa liberamente che, se capitasse a lui, proprio malgrado, pur di evitare l’imbarazzo di
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vivere le occhiatine maliziose dei Colleghi che si danno di gomito, metterebbe mano al portafoglio e
pagherebbe, moneta sonante, la sanzione.
Il sincero auspicio è che il Legislatore riscopra il proprio ruolo e divenga espressivo d’una
volontà popolare che oramai è palese, giacché sono ben pochi in realtà coloro che possono considerare
l’attuale situazione come quella migliore.
La riapertura delle case d’appuntamento viene avvertita oggi come una scelta capace di
provocare la fine del degrado che vivono le aree dove si esercita la prostituzione clandestina.
L’emersione del fenomeno, infatti, consentirebbe di ridurre gli introiti per la malavita che
domina il fenomeno, sarebbe in grado di consentire un controllo sanitario su chi si prostituisce e
certamente assicurerebbe a queste persone delle condizioni migliori.
Nel libro Lettere dalle case chiuse, un’opera scritta a quattro mani da Lina Merlin e Carla Voltolina,
in una lettera inviata alla Parlamentare Italiana, una prostituta così sintetizza la propria vita nel 1955:
«Centoventi uomini al giorno, centoventi bidet. È così da tutta la vita».
Il dramma umano che si esprime in tali parole è evidente e tocca nel profondo. Le donne che,
all’epoca dell’entrata in vigore della legge Merlin, si prostituivano nelle case di tolleranza erano schiave
in un sistema che osservava e non interveniva: tollerava, appunto.
Oggi, malgrado i buoni propositi, la situazione non è, forse, molto diversa.
Se vogliamo essere cinici, possiamo osservare come, nei parcheggi e nelle strade secondarie, il
bidet certamente non ci sia.
Le donne e gli uomini che stanno sul marciapiede vivono nella clandestinità, pertanto eventuali
condizioni di sopruso e violenza di cui fossero vittime non hanno modo di emergere con facilità.
L’insopportabile immobilismo del Parlamento, dunque, è connivenza con una situazione di
decadenza ed avvilimento che la cittadinanza non ammette, tant’è vero che pretende delle risposte da
soggetti facilmente identificabili come i Sindaci, i quali agiscono non per velleità di onnipotenza, ma
come responsabili destinatari di istanze che provengono da parte dei cittadini.
È giunto il tempo, pertanto, per il Legislatore di raccogliere il monito lanciato dalla Corte
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Costituzionale e dalla popolazione, rinnovando un ambito legislativo che oggi non sa offrire risultati.
Su La Repubblica del 2 aprile 1998, in un articolo dal titolo La crociata di Merlina la “rossa”,
commentando come, a distanza – allora – di quarant’anni dall’introduzione della legge Merlin, si fossero
susseguite diverse iniziative volte a superare i divieti da quella introdotti, Gianni Corbi, scriveva: “Le
varianti sono numerose, ma non si sfugge alla sensazione che dietro questi propositi ci sia la tentazione di ripristinare, tali
e quali, quei "mirabili casini" di cui molti sembrano avere ancora oggi una struggente nostalgia”.
Considerando come, ai quei tempi, la maggiore età si raggiungeva a 21 anni5, onde poter avere
nostalgia dei bordelli, dunque, occorrerebbe avere almeno un’ottantina d’anni. Il sottoscritto corre per
le trentatré primavere, pertanto è evidente come possano esservi altre ragioni per ritenere che sia giunto
il tempo per cui il Legislatore affronti in modo maturo e moderno la disciplina d’un fenomeno che non
interessa più la moralità pubblica, la quale – a Dio piacendo – è oramai un residuato del passato, un
inservibile lascito del tempo che fu, relegato in soffitta, rimpiazzato dal convincimento interiore di
ciascuno, da idee proprie e maturate da parte di ognun