Dopo l’udienza, me ne vado al bar per farmi un cicchetto ne ho bisogno.
Un bicchierino di Remy ci sta proprio.
La testimonianza era stata credibile e non avrei avuto conseguenze se non quella di dover pisciare per 3 mesi per i controlli dopo il ritiro della patente.
Era meglio stare a casa quella sera di una settimana prima invece di farmi prendere dalla voglia di una canna, ma si sa quando piglia piglia anche se sapevo che in piazza si trova solo roba di merda e infima qualità.
Il senno di poi.
Di fatto in fase di contrattazione e con un paio di cannette in mano o meglio un paio di cimette…sento…documenti!
Cazzo! Il marocco davanti a me si era irrigidito come un baccalà anche perché accanto a lui si erano materializzati due ceffi che di sbirro avevano ben poco ma avevano il distintivo in bella vista.
Non mi sentivo particolarmente preoccupato, due cimette che cavolo vuoi che mi facciano manco una denuncia.
E invece mi segnalarono e mi dissero che per qualche mese non avrei potuto guidare perché avrebbero trasmesso i miei dati a chi di dovere e…poi vediamo…disse uno sbirro trucido e panzone che faceva paura solo a guardarlo, ghignando malefico.
Fatto sta che dopo qualche giorno mi ritrovai in tribunale a dare testimonianza se riconoscevo il Marocco che mi aveva o voleva vendermi l’erba, perché le due cimette me le sequestrarono i minchioni.
Non mi ero nemmeno fatto assistere da un avvocato, non sarebbe servito e avrei risparmiato anche qualche foglio da 100.
Il giudice, un tipo allampanato che sembrava Aiala in tutto e per tutto ma con una voce da vecchio fumatore, mi apostrofa con acrimonia:
“Riconosce lei l’imputato che la sera del 21 novembre al parco Ravizza le vendette la droga che le è stata sequestrata?”
“No signore, al buio son tutti uguali sti marocchi (brusio dietro di me forse degli avvocati) e come si fa a riconoscerli, sfido chiunque a farlo, non ne sono in grado”.
Rispondo con voce sicura e ferma. Tranquilla.
“Ne è proprio sicuro? Guardi che la falsa testimonianza è un reato” chiosa il giudice.
“Si signore, confermo. Se lei va nello stesso punto in cui mi hanno beccato si accorgerà che è un angolo buio senza lampione, vicino ad un albero, nella mia deposizione lo legge comunque se vuole”. Un po arrogante e provocatorio ma ero sincero.
Sguardo torvo del magistrato e di quell’altri che gli stavano accanto. Forse anche perché non ho detto vostro onore ma solo signore, ma l’ho fatto apposta.
Mi gesticola di tornare seduto al mio posto, mi risiedo e mi dice dopo poco un’altro grassone in divisa che posso andare.
Gli accenno un grazie cattivo, forse più incattivito che cattivo.
Al bar del tribunale appoggiato ai rustici davanzali di legno, che mi sa sono ancora quelli del Piacentini, sorseggio il Remy scaldando il bicchiere sbagliato tra le mani, nemmeno sanno come si serve un cognac ma non importa, mi scalda l’anima che si è raffreddata al pensiero che per qualche mese non potrò guidare.
Ma penso che me ne fotterò alla grande.
La prima convocazione per le pisciatine, mi arriverà via posta, spero solo non sia in qualche ASL in culonia e che arrivi presto.
L’ora di pranzo è passata ormai ma non ho fame e nemmeno vedo qualcosa di appetibile al bancone che potrebbe stuzzicarmi l’appetito, esco con l’intento di andare a cercare qualcosa che non sia un McDonald, dopo le 14.00 a Milano solo panini, ah bella la mia Parigi dove si può sbafare qualunque cosa a qualunque ora del giorno.
Varcato il portone di via Freguglia, una nebbiolina stupida e tipicamente milanese abbraccia tutto, monotona e afona, il periodo che prediligo, amo queste giornate che tutto il mondo definirebbe uggiose e brutte ma che mi avvolgono e mi danno pace.
Sin da piccolo amavo queste giornate odiate per tutti ma non per me.
Prendo il 12 in corso di Porta Vittoria, direzione Paolo Sarpi, vado a farmi i ravioli brasati alla Ravioleria cinese che è sempre aperta.
Sul tram mi siedo accanto a un tipo assurdo con un cappellaccio tipo Filson ma potrebbe anche essere un Broner o uno Stetson, parla da solo ma bofonchia e non si capisce un tubo.
“Tutto bene?” Gli butto li.
Si gira verso di me.
Sembra Buffalo Bill,
Pizzetto e baffoni bianchi candidi, avrà una settantina di anni dalla faccia rugosa che si ritrova e peraltro parecchio vissuta, deve averne passate il tipo, sguardo vacuo e mi spalanca gli occhi color ghiaccio come se fosse stupito che qualcuno si potesse interessare a lui.
“Lei crede in Dio?” Mi butta là.
Accidenti che domanda, mi spiazza.
Mi vengono in mente angeli e diavoli.
“Guardi sono la persona meno adatta per risponderle, la fede è una dote che non mi è ancora stata concessa” e sorrido sperando di far scemare un qualcosa che potrebbe addentrarsi in un torbido ed anelante discorso.
“Neppure io”
“Allora siamo in due, facciamo parte del club” gli rimando tanto per dargli corda. Mi dispiaceva in fondo per lui, sapeva di solitudine.
A quel punto il 12 era arrivato all’angolo con via Bramante.
Mi alzo.
“Senta io scendo qui, la saluto e abbia cura di se” gli do una pacca sulla spalla e mi alzo.
“Anche io scendo qui” e si alza anche lui, ha un bastone, un bellissimo bastone con il pomo d’avorio se è avorio, di quelli da serata alla Scala. Indossa un cappotto blu doppiopetto e scarpe nere lucidissime, stonano con il cappellaccio.
Ma come diceva quel tale: l’errore nel vestire, diventa delizioso se voluto.
“Beh…la saluto, piacere di averla conosciuta” gli sorrido benevolo.
“Senta…le andrebbe di bere un caffè insieme?”
Lo guardo bene: è un’insolito vecchio, basso, magretto con pancetta e lo vedo inconcepibilmente un po teso.
Il suo viso mi ricorda qualcuno, chi... non focalizzo al momento.
“Veramente io stavo per andare a farmi due ravioli laggiù” indicando con la mano
“E vada per i ravioli, vengo anche io”
Nicchio per un attimo e poi accetto di buon grado, non ho nulla di particolare da fare e mi pare che il vecchietto o si sente solo e vuol fare quattro chiacchiere o vuole solo rompere i coglioni.
Ma i ravioli in piedi con uno che non conosco non mi prende.
Assecondo il suo desiderata.
“Facciamo cosi” dico “ci sediamo qui alle Cantine Isola che tanto ci servono in ogni modo anche se tardi, un bicchiere di buon vino e due stuzzichini e stiamo comodi, le va?”
Mi guarda meravigliato e sorride sotti i baffi, non dice nulla, è contento.
Troviamo un tavolo libero fuori e ci accomodiamo.
Ci prendiamo due calici di un rosso gradevole, probabilmente un Oltrepò con degli stuzzichini ai salumi e formaggi.
“Senta” mi fa un po sornione “ma lei che ne pensa di Milano? Ci abita? Le piace?
Mentre addento un delizioso minitramezzino con fichi e salame, lo guardo bieco.
“Perche questa domanda?”
“Perche lei non è milanese ma toscano, il suo accento ancora la tradisce, lei è della terra dei Medici, sbaglio?”
“No non sbaglia, sono della maremma…la maremma maiala per esser preciso” e mi scappa una risata effimera.
“E come mai qui a Milano?”
“Ci sto da più di 40 anni, il babbo venne nel lontano 1965, avevo 10 anni ma prima siamo stati qualche anno in Brianza”
“E come mai a Milano proprio?”
Aridalli…
Mi sto scocciando ma cerco di non farlo vedere, sorseggio il mio vino che lui non lo ha ancora toccato. E’ solo un tipo curioso che ha voglia di parlare, mi sa ho fatto male a dargli retta.
“Vede, mio padre lavorava come decoratore e creava le figure iconiche dei carri del carnevale, voleva dare più spazio alla sua creatività e si mosse verso il luogo che negli anni 70 avanza con i primi passi della pubblicità creativa, e cosi è stato. Era un suo pallino. Io faccio il suo stesso lavoro anche se non con gli stessi risultati, lui era un genio e io solo un figlio d’arte venuto male che non ha mai sopportato le regole e ancora oggi ne pago le conseguenze”
Mi guarda e sorride divertito. Mi sa che non gli torna e pensa che racconto delle frescacce.
“Un toscanaccio quindi”
Embè!!!
“Si, un toscanaccio che se potesse scapperebbe da questa città, ma credo da tutte le città”
“Perche, scusi?” E si fa serio.
Finisco il mio calice cercando di prender tempo nella risposta.
“Perché il buonismo cittadino è falso, fasullo, mendace e poi mettiamoci che amo poco il mio prossimo anzi, per dirla tutta mi sta proprio nei coglioni il mio prossimo sa?”
“Quindi anche io? E allora perché mi ha rivolto la parola sul tram?”
Siamo fuori e si può fumare, mi rollo una sigaretta con calma.
“E’ semplice, certe volte mi accorgo anche io di dire una frasetta, una parola che esternalizzo non riuscendo a tener dentro l’impulso di coscienza e probabilmente in quel momento vorrei comunicare con qualcuno ma la gente che se ne accorge, sempre se mi accade in un posto affollato tipo metropolitana, tram o altro, mi guarda come se fossi matto e non si rendono conto che è un qualcosa che accade a tutta l’umanità. Ecco perché le ho chiesto se andava tutto bene, il mio cervello deve aver registrato questo mio stimolo e l’ho ribaltato verso di lei.”
Mi guarda pensieroso ma soddisfatto, si liscia il pizzo e i baffoni.
Mi sento osservato.
Mi sta saggiando, mi sta valutando, sta scomponendo questo incontro con un perfetto sconosciuto che gli sta dedicando del tempo che probabilmente non si aspettava.
Rimaniamo alcuni minuti a guardarci, misurandoci con gli sguardi, io non gli chiedo che fa e chi è, non lo voglio sapere semprechè non sia lui a parlarmene.
Ma non lo fa.
“Perché vuol apparire superficiale o meglio poco accorto a ciò che la circonda?”
E me lo chiede con un tono ironico davvero fastidioso. Mi irrita.
“E ora questo che c’entra?”
“C’entra, c’entra caro amico…”
“Guardi io non sono suo amico, piano con le parole e misuriamole per favore.”
“Ma le ho misurate e mi risulta amico preciso…scherzi a parte…ecco vede…mi sembra che lei vuole tenere le distanze come se non volesse far entrare nessuno nei suoi pensieri ne dare motivi per sfatare il suo io e la sua immagine da non infrangere”
“Mi sta facendo analisi? Cosa è uno psichiatra?”
Acido e acre come un limone.
”Non ho bisogno della sua psicoterapia da bar, sa?”
Mi guarda serio, si alliscia i baffi.
Spengo la cicca, lancio un occhio al telefono se qualcuno mi ha chiamato o inviato mail o altro. Silenzio su tutti i fronti e non mi dispiace.
“Stiamo discorrendo del più e del meno, non si deve irritare, in fondo ci stiamo facendo compagnia perché mi pare che se lei sta perdendo del tempo con me, vuol dire che non ha nulla da fare, giusto? Ma mi scusi ma lei...mi dica...come lo trascorre di solito il suo tempo?” E lo dice con voce greve.
Parole e sguardi da indagatore, sotto sotto vorrebbe sapere che faccio nella vita.
Mi irrita davvero.
“Le giornate non le trascorro” Rispondo acido.
“Non le trascorre?”
“No le subisco”.
“In che senso, scusi”
Lo squadro torvo e dico “ Ma si rende conto che mi sta facendo un interrogatorio vero e proprio e nemmeno ci siamo presentati? Stiamo discorrendo del più e del meno…forse più del meno che del più più…ma nemmeno sappiamo chi siamo, almeno io non so chi sia lei ma so chi sono io: uno scemo che pensava di fare compagnia ad un “vecchietto” che mi pareva solo e bisognoso di parlare e invece mi trovo invischiato nel ricevere solo domande. Ma di questo ne parliamo dopo, comunque le voglio spiegare perchè subisco le giornate e non le trascorro”.
Incrocio le braccia a chiusura, mi tolgo gli occhiali e gli pianto gli occhi nei suoi, stile inquisitore.
Stile milanese incazzato!
“Allora, vado in metropolitana e mi ritrovo ad ascoltare i discorsi di tutti quelli che ormai parlano attraverso il microfono delle cuffiette perché il telefono all’orecchio fa male ma non fa male rompere i coglioni al prossimo, se poi ci mettiamo i marocchi o rumeni o pseudo tali che se ne fottono delle cuffiette e parlano con tono di voce come se stessero parlando con l’ultima persona della vettura, lei capisce che sto subendo una violenza arbitraria ma non ci posso far nulla perche contro i cazzoni non ci sono armi.
Poi vai al supermercato alla domenica mattina presto cosi trovi poca gente, ti metti in coda alla cassa e c’è pieno di anziani pensionati! Porca miseria, ma dico non c’hai da fare un cippo tutto il giorno e tutto al settimana e proprio alla domenica mattina devi venire qui?
Apre la cassa accanto alla tua e tu che sei il prossimo in ordine di coda, ti vedi sorpassare dal quarto che era dietro di te che si precipita manco perdesse il treno, pensi che stronzo… e abbozzi ma e un vaffanculo no? Lei caro prof. che dice!
E ancora: si aprono le porte della metro o di un tram o di un bus, scelga lei il mezzo, mica ce la fai a scendere perche chi deve salire se ne fotte e si ammassa come delle pecore che vanno all’abbeveratorio, devi spingere tu per scendere! Vado avanti o le basta?”
“No no mi sto divertendo, vada...vada avanti…” si sta davvero divertendo mi sa e io invece mi sto incazzando a ripensare alle angherie che subisco durante tutta la giornata.
“Come vuole, allora parliamo di automobilisti. Lei ha la macchina?
“No, non guido”
Mi sto alterando.
“Al momento nemmeno io, ma mi spieghi per quale motivo quando piove e tu sei anche senza ombrello perche non ti aspettavi l’acquazzone e sei sulle strisce pedonali in procinto di attraversare, questa banda di mammalucchi ti vedono e non si fermano, anzi se possono ti sciacquano bene con la pozzanghera perche vanno a velocità supersonica, ma porca Eva sei li seduto al calduccio sul tuo macinino dimmi per quale motivo non puoi fermarti e dare la precedenza ad uno stronzo tuo simile. E ora basta, guardi lasciamo perdere che mi girano gli zebedei solo a pensarci”
“Mmmm lei fa caso a troppi accadimenti quotidiani che dovrebbe invece ignorare, pensa di essere tanto diverso dai comportamenti che mi ha elencato, sicuro? O forse è troppo sensibile e se è cosi dovrebbe aiutare se stesso e non guardare il fatto ma attraversare il fatto e farsene una ragione del mondo che va e che non puo cambiare.”
“Io sono una persona sensibile grazie al dolore che ho ingurgitato, ma non so che farmene di questa sensibilità perche sarà pur vero che chi ha sofferto è più delicato e profondo, ma sono sempre i felici quelli che sorridono senza un perche”.
Non mi sapevo cosi profondo.
“Lo avevo capito che è una persona che ha vissuto, comunque io sono Sergio Pepe, professore di disegno in pensione. Piacere” e mi tende la mano alzandosi compostamente.
Oh porca p...., faccio tra me e me…e subito la mente si ricorda perché il viso non mi era nuovo.
“Professor Pepe!!! Io sono Matteo Bruni, lei era il mio insegnate di figura a Brera!”
Quasi mi metto sull’attenti, mi ribalto dal tavolo verso di lui e gli stringo dignitosamente la mano con con referenza.
“Si rende conto che incontro, dopo 30 anni? Lei mi faceva dei cazziatoni fotonici perché non volevo usare la matita grassa alle lezioni di nudo ma mischiavo la sanguigna con carboncino blu, ma non credo se lo ricordi ma io si”
“Caro Matteo, no non mi ricordo ma mi ricordo solo che eravate dei contestatori e continuavate a disertare le mie lezioni per fare quelli che voi chiamavate gruppi di studio…al Bar Giamaica…poi, credevate che non ero a conoscenza delle vostre pseudo riunioni al bar?
Sapevo tutto e vi avrei presi a calci nel sedere” e se la ride beato.
E intanto abbiamo ordinato altri due calici, il vino fa buon sangue e scalda l’anima.
“Ma poi dica…Matteo, che facevate tutta la mattina al bar perché a un certo punto a casa dovevate tornare e che raccontavate?
Che avevate partecipato ai gruppi di studio per il voto collettivo? So’ curioso…”
A quei ricordi mi piange il cuore, non accadrà più per il resto della vita che devi pensare solo a te stesso: studiare, essere promosso, vacanze, amici, il motorino e i soldini in tasca per la miscela e qualche rara volta la pizza ma sempre a mezzogiorno, non si aveva ancora l’età per uscire alla sera. Niente bollette, niente mutuo o affitto, niente assicurazione, bollo…dentista, vestiti…figli da mantenere, niente di tutto questo, solo pensare agli affaracci da adolescenti...semmai contestare i genitori e tutto quello che non ci tornava comodo egoisticamente. No, non accadrà mai più. Anche perché tutto quello che non fai quando è il momento di farlo, te lo porti appresso come fardello per tutto il resto della tua vita ma te ne rendi conto sempre e solo quando è troppo tardi.
Evidentemente si deve esser accorto che mi sono isolato con la mente, che sono tornato indietro nel tempo.
“Ehi…non volevo mica farti intristire a riandare al passato…” mi dice con comprensione e mi tocca la mano con la punta delle dita quasi a farmi una carezza e a farmi tornar nel presente con lui.
Burbero ma sempre con un tocco di umana comprensione.Esattamente come me lo ricordavo.
“Tornare con il pensiero al 1970 è un attimo prof, ma non è che chissà cosa turbava il nostro tempo al Bar Giamaica, certo non la scuola dato che ce ne fottevamo alla grande e poi a casa erano balle su balle delle più disparate e fantasiose.
Al tempo non c’erano le tv sempre accese nei bar ma il jukebox con le lucine, i bracci manovravano i 45 giri con seducente flemma e si faceva la colletta per le 50 lire da inserire.
Ecco come si passava la mattina, cosi…ad ascoltar da Drupi a De Andrè, da Dalla a Battisti.”
“C’era da immaginarselo.” Fa lui sornione e quasi giocoso.
“Ma non c’era solo il bar, certe volte si andava ad esplorare, ad esplorare i sotterranei. Si ricorda quella porticina accanto all’aula di ornato, vicino al busto grigio scarabocchiato di cui ora non ricordo l’appartenenza? Da li si arrivava ad un’altra stanzetta, quella delle scope dei bidelli che pulivano le aule e si accedeva ad una scala che portava sotto alla pinacoteca, e ci si andava con gli accendini, disgraziati che non eravamo altro. Pericolossissimo dato che erano pieni di tele vecchie e rotte, fasci di disegni, banchi e telai da pittura. Ci si andava cosi tanto per far qualcosa di trasgressivo e sotto sotto forse si voleva anche esser beccati in flagrante per far scorrere un po di adrenalina ma non è mai successo”
“Ma che bravi ragazzi!” Fa lui ritoccandosi le punte dei baffoni.
Nel mentre si siedono accanto a noi, e si che di tavoli liberi c’erano, due ragazzi cinesi giovani giovani.
Lei bellissima e io sono rapito dal fascino delle donne asiatiche e questa cinesina che forse non arriva a 20, anni rimanda a una sensazione di tranquilla bellezza, un qualcosa che galleggia immersa nella luce.
Da idiota la fisso per qualche istante e il tipo se ne accorge e mi lancia un’occhiataccia facilmente traducibile, me ne vergogno un po. Assomiglia a Shirley Jiang Peilin, famosa e bellissima modella cinese.
Adoro le donne orientali, hanno una marcia in più.
“Mai fissare una donna specialmente se accompagnata…Matteo!”
Mi apostrofa il prof. Pepe, redarguendomi acidamente con tono di rimprovero molto scolastico.
Lo guardo imbarazzato e non dico nulla, ha ragione ma difficile distogliere lo sguardo da un viso cosi fine e delicato.
Intanto i due si scambiano delicate effusioni fatte di sguardi e carezze sulle mani, sono innamorati.
Si capisce, emanano tutto il loro essere con se stessi incuranti del mondo esterno.
La mia mente va veloce ad Ayomi, la giapponesina con cui ebbi una fugace relazione non molto tempo fa.
Non funzionò perché come sempre non sono capace a mantenere un rapporto duraturo, mi faccio troppo i fatti miei e non permetto a nessuno di entrare.
“ohhh...Matteo ci sei sempre?” mi fa il Prof, deve essersi accorto che mi sono perso in qualcosa a lui oscuro ma che per me era un moneto di tenerezza con me stesso.
“Stavo cercando di ritrovare una sensazione del tempo. Quello che si prova da giovani, purtroppo, lo dimentichiamo quando diventiamo adulti. Solo da vecchi riusciamo a ricordarcene di nuovo, non pensa professore?”
Paraculo.
“Mi salti di palo in frasca caro mio, mi sa che sei un un momento un po confuso eh...ricordati che niente è come sembra, vabbè senti io devo andare, mia figlia mia aspetta per andare a comperare il regalo per suo figlio Niccolò, ti lascio il mio numero di telefono caso mai avessi il desiderio di fare ancora due parole, altrimenti lasciamo che questo momento rimanga fortuito come è nato, a te la scelta. Se ci rivedremo tanto meglio.”
Sempre il solito il prof, nessuno a scuola aveva mai capito se faceva cosi solo per non affezionarsi.
Detto questo tira fuori dal taschino della giacca un taccuino e una stilografica, verga il suo nome e il suo numero e mi porge il foglietto che ha staccato con cura.
La classe non è acqua, lo stlie del prof: ineguagliabile.
“Non ho un telefono portatile ma solo quello di casa” mi specifica.
“Professor Pepe, non lo so se ne avremo l’occasione, davvero ancora ma una cosa la so e gliela dico anche se è un aforismo ma precisa: alcune persone con la tua quotidianetà per una vita e nemmeno te ne accorgi, altre davvero per poco e ti restano tutta la vita”.
Ci guardiamo negli occhi per qualche istante.
Non c’è altro da dire.
Ci alziamo, lascio il dovuto dello scontrino velocemente in modo che non ci siano equivoci su chi debba pagare.
Mi sono commosso e cerco di ricacciare il lacrimone ma mi si incrina la voce, Se ne accorge, mi abbraccia. Mi stringe forte la mano e si allontana.
Mi intristisco, rimango solo al tavolo guardando i due cinesini che si guardano negli occhi e si rimandano chissà quali pensieri da innamorati fatti di progetti, condivisioni, sensazioni.
Mi avvio anche io verso casa, verso la mia solitudine, verso ricordi e rimpianti, a fiatare l’insalubre lezzo dell’inquinamento e risentire il bailamme dei clacson sfrenato, vedere nuovamente i grugni incazzati dei milanesi e i musi da fighette delle milanesi.
Mi fermo sotto casa al super per vedere se mi viene voglia di farmi una cena decente al posto del solito minestrone, ne faccio pentolate e lo congelo, adoro il minestrone ma ogni tanto ho bisogno di qualcosa di malefico, di quei cibi che certo non sono salutari ma sono tanto goderecci.
Il cibo se non è grasso non sa di niente, diceva qualcuno.
Spaghetti alla carbonara, cotolette alla milanese, pappardelle all’amatriciana, patate fritte e uova fritte, fritto misto piemontese, salsiccia toscana fritta e chi più ne ha ne metta.
Cerco in tasca la moneta per il carrello e non ne ho, fa niente uso la chiave del portone che ho scoperto essere perfetta per questo scopo, mi sa che non lo sanno in pochi.
Due tagliatelle al salmone? Ma si dai.
Osservo le varie confezioni del pesce tipico dei mari freddi del nord Atlantico.
“Mi scusi secondo lei quale è più buono, mi sembra che lei se ne intenda di salmone affumicato”
Davanti hai miei occhi due manine graziose con due confezioni di marche diverse in ogni palmo, alzo gli occhi e rimango lì...murato.
Faccia da beota: me la sento proprio.
E un viso che ricorda moltissimo Ava Gardner, capelli neri mossi fino al collo, occhi neri e luminosi, senza trucco salvo forse un po elainer agli occhi.
Pelle bianca quasi diafana, lineamenti davvero sofisticati.
La squadro in un secondo da capo a piedi: tailleur blu con pantaloni vintage, ballerine blu con qualche strass a decorazione, maglina bianca girocollo, un balcone di notevole sbalzo: indimenticabile.
“La ringrazio per la fiducia ma cosa le fa pensare che possa intendermene?”
“Avrà preso in mano tutte le confezioni possibili leggendo le etichette e ho pensato che...”
Fa la faccia del tipo...eh, è palese no?
“Veramente stavo guardando le varie scadenze ma la mia preferita come marca è questa perchè è il meno salato di sapore, si sa che il sale è un conservante”
E le mostro la busta.
Lei la prende in mano, nemmeno controlla il prezzo mentre io la fisso ipnotizzato e poi mi ricordo delle parole del Prof. Pepe.
“Come pensa di cucinarlo?”
“Sui crostini con burro danese salato”
“Ottima scelta, il modo migliore”
Noto che non ha la fede, ma nemmeno io e non sono sposato, per lei non è detto.
“Grazie, buona spesa” fa lei e si gira con il suo carrello bello pienotto, ma non da famiglia perchè ad una fugace occhiata non vedo cose da bambini.
E lì,vedo il dedrè, come disen a’ Milan.
Pura poesia, due mezze sfere fatte per essere ammirate, contenuteda pantaloni stile anni trenta, larghi dai fianchi in giù e con risvoltoni alla base, attillati nel posto giusto.
...il naufragar m’è dolce in questo mare...
Leo ti amo.
La seguo con lo sguardo fino a che gira in un’altra corsia ma mi accorgo che facendo finta di guardare un prodotto, di sbieco mi ha sbirciato e mi sembra di averle letto un sorriso compiaciuto.
Eh no...non posso lasciar perdere, se nasci sardella muori in padella.
Quindi tanto vale camminare tra le vestigia delle mie speranze.
Metto nel carrello prodotti di cui non mi frega nulla: fette biscottate, tisana alla camomilla, biscotti integrali senza zucchero e senza burro ...senza burro...di che sanno..., insalatina biologica e altre robine consimili. Insomma il festival del non sa di niente.
Mi faccio anche io la coda dal salumiere chiedendo la loro fornitura di grana della Valle di Sciupo, pecorino sardo prodotto in Versilia e mozzarella di capra di Finale Ligure.
No, non ne hanno.
Solo per poter seguire la sciura e trovare il modo di passare in cassa
dietro di lei.
Ma non succede.
Lei va alle automatiche e io no ma passo quasi subito da una standard lì accanto.
Le tocca la rilettura, evvai!!!!
La fortuna aiuta gli audaci.
Ci ribecchiamo all’unisono all’uscita per il piazzalone, fianco a fianco.
Lei mi guarda e mi dice sorridendo “Ma mi sta seguendo per caso anzi...senza il caso” e mi fissa con sguardo indagatore, benevolo e anche divertito.
Mio attimo di incertezza.
“Si”
“Alla faccia della sincerità! E a quale pro?”
Panico, mi irrigidisco, annaspo nel cervello una risposta che non arriva e lei se ne accorge.
“Mi dia una mano piuttosto, si renda utile”
Mi porge un sacchetto, guarda caso il più peso, stronzetta ma in fondo mi ha tolto d’impaccio e lo sa.
Ci avviciniamo alla sua auto, una R5 Turbo nera. Spettacolo.
Anche l’auto vintage.
Chiaramente restauro di alto livello, pare nuova. Lucidissima.
Picchietta sul finestrino posteriore, si muove con calma.
Sembra voler perdere tempo ma mi accorgo che è lei così.
Non perde tempo: si fa guardare.
Dall’auto esce un tombolotto dal viso simpatico e sbarazzino vestita con una tuta da jogging rosa e berrettino d’ordinanza...sembra Bianconiglio.
“Martaaaaaa ma quanto ci hai messo, hai detto due minuti...sono arrabbiatissima”
Viso imbronciato ma chiaramente voluto per sembrare offesa.
E le schiocca un bacio sulla bocca e secondo me anche con mezzo metro di lingua.
Rimango per la seconda volta nel giro di poco tempo...murato.
Sacchetto della spesa sua ancora in mano, sembro una statua.
Lei me lo prende e mi dice: “Niente è come sembra”.
Il tono è comprensivo, quasi dispiaciuto, compassionevole.
Mi strizza l’occhio e sale in auto con tombolotto.
Mavaffanculo va...
Eh si caro Professore, niente è come sembra.